In Cina il 28 marzo diventa festa nazionale

26 01 2009

cina-comunista

Il 28 marzo, anniversario dell’invasione cinese del Tibet, diventerà festa nazionale. Suona come qualcosa a metà tra una provocazione e una ridondante manifestazione di forza la decisione assunta da parte del governo di Pechino di istituire una giornata che ricordi, cita testualmente l’enfatico comunicato della Repubblica Popolare, «la storica riforma democratica iniziata 50 anni fa». Era il 1959, infatti, quando «milioni di schiavi sotto un regime di servilismo feudale divennero artefici del proprio destino».

Poco importa a Pechino se per il resto del mondo, tibetani compresi, quella data rappresenta un sangionoso ricordo di repressione della libertà di un’intera nazione, e di riduzione di un paese sovrano a provincia dello stato aggressore. Già, perché l’anno di riferimento scelto per commemorare la «rivoluzione» non è il 1950, quando le forze armate cinesi ebbero la meglio in brevissimo tempo sulle difese tibetane, scarse, male equipaggiate e assai poco propense ad una strenua resistenza, bensì il 1959: l’anno in cui l’allora Dalai Lama fu costretto all’esilio dalle pressioni del regime comunista appena instauratosi. Una data rivestita da un’enorme valore simbolico per i tibetani, sia in patria che all’estero. Una ricorrenza che viene ricordata ogni anno con manifestazioni di protesta in tutto il mondo e che l’anno scorso sono sfociate in violenti scontri nella capitale Lhasa.

Qui la retorica politica ribalta qualsiasi punto di vista. E deve farlo per forza. Specie in un periodo in cui, dopo le manifestazioni di protesta del marzo scorso nella capitale tibetana e gli strascichi che la violenta risposta cinese aveva lasciato anche sulle Olimpiadi, il governo comunista ha il suo bel daffare per gestire un’opinione pubblica mondiale unanimemente avversa al suo operato.

Ma, da sempre, la miglior difesa è l’attacco. Lo dicono i proverbi, e lo diceva anche il venerato Sun Tzu, storico stratega divenuto famoso per la sua «Arte della Guerra» che in Cina viene tenuta nella stessa considerazione che, nel nostro paese, viene tributata all’omonima opera del Machiavelli. Perciò la risposta della Repubblica Popolare è stata così eclatante: per dimostrare di avere ragione occorre gridare la propria verità più forte, e soprattutto con maggiore convinzione, di tutti gli altri. Difficile sapere quanto questa strategia possa portare frutto all’estero. Di sicuro però, in patria, compresa quella «occupata», si sta rivelando una mossa politica quanto mai efficace. Gli oppositori politici interni sono avvisati: i cinesi considerano il Tibet come cosa loro a tutti gli effetti, e non tollereranno alcuna presa di posizione in senso contrario.

E per sottolineare con maggior vigore questa netta presa di posizione, ecco la scelta del governo centrale di demandare direttamente al parlamentino-fantoccio di Lhasa, diretta emanazione dei voleri del PCC, il compito di scegliere una data in cui celebrare nel 2009 la «festa nazionale». Anzi, ci sarà di più: alle fastose e festose celebrazioni sarà invitata a prendere parte in qualità di graditissima ospite la stampa straniera al gran completo. Tutto deve infatti poter testimoniare senza tema di smentita che in Tibet la situazione è tornata alla normalità, intesa ovviamente in senso tutto sinocentrico, che l’ordine e la tranquillità regnano sovrane, e che un futuro radioso di prosperità economica si prospetta per la «provincia cinese» baciata persino da un notevole incremento di flussi turistici. Niente disordine, niente problemi. E non ha importanza se, per fare ordine in casa, è stato necessario ramazzare sotto il tappeto dell’apparenza una delle pagine più sanguinose della storia.

Luca Pautasso

da Ragionpolitica