Cosa è cambiato in trent’anni di legge Basaglia

31 12 2008

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Trent’anni fa, il 13 maggio del 1978, veniva approvata dal parlamento italiano la legge 180, da tutti conosciuta come Legge Basaglia, dal cognome del suo fautore, Franco Basaglia: psichiatra brillante, docente universitario autorevole, ma soprattutto medico e scienziato controcorrente. Per primo, in Italia, introdusse l’idea di una “nuova” psichiatria, basata sulla visione del malato non solo come “matto”, diverso, soggetto “pericoloso” da emarginare e distogliere dalla comunità dei “normali”, ma come degente bisognoso di cure e assistenza, e soprattutto, come essere umano in difficoltà. Una persona delle cui problematiche la società doveva farsi carico, senza limitarsi ad aggirare il problema rinchiudendolo tra le quattro mura di un manicomio.

La sua legge chiuse definitivamente le porte dei manicomi, dando il via a una psichiatria senza più muri, lucchetti, serrature e contenimenti ma con al centro la dignità e la dimensione umana dell’ammalato, visto e inteso senza prescindere dal legame con il tessuto sociale in cui esso vive.

Cos’era il manicomio? Prima della Basaglia, non era semplicemente un ospedale, ma un luogo in cui “il matto” veniva rinchiuso, isolato, emarginato dalla società dei sani. Muri e inferriate rappresentavano un ostacolo insormontabile al recupero e al reinserimento sociale, spesso nemmeno contemplati, e più che a impedire al malato di allontanarsi sembravano svolgere la funzione opposta, ovvero quella di “proteggere” il mondo esterno dalla malattia che dentro quelle barriere era racchiusa.

Il manicomio diventava una parte integrante del tessuto urbano in cui era racchiuso. Spesso, ne diventava un elemento caratterizzante. Non solo perché il numero dei degenti, migliaia e migliaia, arrivò in taluni casi a sfiorare quasi quello degli abitanti della città in cui si trovava. Ma anche perché centinaia e centinaia di medici e infermieri vivevano e ruotavano attorno a questo gigantesco complesso. E poi, nonostante le strutture manicomiali fossero quasi sempre state pensate per essere il più autosufficienti possibili, l’ospedale aveva bisogno di cercare fuori dalle sue mura le risorse e i beni di cui aveva bisogno. E il manicomio, dunque, diventava anche fonte di reddito, occasione di lavoro per tanti.

Si poteva varcare la soglia di un manicomio da bambini, perché troppo vivaci e irrequieti, perché affetti da leggeri ritardi mentali o perché colpiti da menomazioni fisiche particolarmente deformanti. Si poteva essere abbandonati dai propri genitori perché questi erano privi dei mezzi necessari al sostentamento. E non mancano i casi di donne fatte internare attraverso arditi espedienti e la compiacenza di medici amici di mariti desiderosi di liberarsi del fardello di un matrimonio non più voluto, in un’epoca in cui il divorzio non era un’opzione plausibile, ma solo un’onta. Ma si poteva finire “ricoverati” anche perché omosessuali, oppure ancora anarchici. Le cronache degli inizi del secolo passato pullulano di racconti di questo genere. Una di queste cronache arriva proprio da una città che pochi anni dopo sarebbe tornata alla ribalta per un altro strano “matto”, lo smemorato. Questa storia racconta dell’episodio avvenuto in una afosa notte del luglio 1912, quando i “matti” di Collegno fecero la rivoluzione. Tutto cominciò con un concerto di pitali e gamelle percosse con forza contro le inferriate alle finestre, e con la richiesta di maggiori diritti e trattamenti più umani. Per dare ancora più forza a queste loro richieste, i degenti denudarono e legarono infermieri e caposala, minacciando di gettarli giù dal tetto del padiglione in cui erano asserragliati qualora le loro richieste non fossero state esaudite. Ma i rivoltosi non erano affatto “matti” come tutti gli altri. La sommossa era partita infatti dal braccio degli anarchici, considerati “pazzi” perché rifiutavano l’ordine costituito e soprattutto perché ripudiavano la figura del sovrano, investito da Dio stesso del suo ruolo di padre della nazione e del suo popolo. La rivolta si concluse senza vittime né feriti, con la resa e l’arresto dei rivoltosi, i quali però accettarono di consegnarsi ad una condizione: che nel tragitto verso la nuova prigione cui erano desinati ci si fermasse tutti a bere una birra. Malati, infermieri, guardie ai fuochi e forze dell’ordine intervenuti a sedare la sommossa, tutti attorno allo stesso tavolo a siglare la “pace” fatta. Robe da matti? Forse. Di sicuro, uno degli spaccati più eloquenti di quello che rappresentava allora la realtà manicomiale.

Qualunque fosse il motivo, la ragione clinica o “sociale” del perché si finiva per varcare la soglia di un manicomio, l’esito era molto spesso uguale per tutti. Quelle sbarre, quei muri, quelle inferriate alle finestre, sarebbero diventati per la maggior parte dei degenti l’unico panorama che essi avrebbero più rivisto fino alla fine dei loro giorni.

L’esperienza di Basaglia, rivoluzionario con il camice da psichiatra, cominciò nel 1961, quando abbandonò la carriera universitaria, divenuta ormai troppo stretta per un “libero pensatore” del suo calibro, per partire alla volta di Gorizia, dove aveva vinto un concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico cittadino. Fu allora che si scontrò con quella che era la tragica realtà manicomiale: una realtà tutt’altro che terapeutica e recuperativa, ma fatta invece di  cancelli, inferriate, mura, lucchetti, catene, serrature. E le cure cui i medici più sovente facevano ricorso erano i letti di contenzione, la camicia di forza, il bagno freddo, l’elettroshock, la lobotomia. «Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’» disse allora lo psichiatra, commentando ciò che avveniva sotto i suoi stessi occhi.

Decise di imprimere un netto cambiamento di rotta a quella realtà. Volle istituire nello stesso ospedale goriziano il modello della “comunità terapeutica”, di ispirazione anglosassone. Il nuovo direttore “rivoluzionario” fece cancellare tutti i tipi di contenzione fisica, depennò le terapie di elettroshock dall’elenco delle cure somministrate ai pazienti, ordinò di aprire i cancelli, di lasciare i malati liberi di passeggiare nel parco, di consumare i pasti all’aperto, di sentirsi degenti assistiti e non prigionieri. E, sul fronte delle terapie, non più soltanto farmaci, ma anche rapporti umani rinnovati con il personale della comunità terapeutica. «I pazienti – soleva spiegare ai suoi collaboratori – devono essere trattati come uomini, uomini in difficoltà, non come vittime di una forma di divesità”.

Fu sicuramente l’esperienza di Gorizia e la consapevolezza che maturò negli anni a venire a convincere Basaglia che l’esperienza manicomiale dovesse essere chiusa per sempre. Nel 1973 Trieste venne designata “zona pilota” per l’Italia nella ricerca istituita dall’Organizzazione mondiale della sanità sui servizi di salute mentale, e Basaglia fu uno dei nomi più autorevoli di questa sorta di sperimentazione. Nello stesso anno, il medico si dedicò alla diffusione delle sue teorie anche al di fuori dell’ambito strettamente clinico, fondando il movimento Psichiatria Democratica: questo divenne il portavoce “istituzionale” di questo nuovo corso della psichiatria, che varcò le soglie delle aule universitarie e delle corsie degli ospedali per entrare nei temi più dibattuti dalla società civile. Fino a che, appena cinque anni più tardi, approdò sul gradino più alto della scena politica: il 13 maggio 1978, fu approvata in Parlamento la legge 180 di riforma psichiatrica.

«La follia è una condizione umana – diceva Basaglia – In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’ essere».

Cos’è cambiato, oggi, rispetto a trent’anni fa? Lo spiega Enrico Zanalda, primario del reparto di psichiatria dell’ospedale di Rivoli, vicino a Torino, e responsabile del dipartimento di salute mentale dell’Asl Torino 3. La Legge Basaglia, dice, ha fatto fatica a far sentire i suoi innovativi benefici negli effetti. Ci sono voluti quasi vent’anni, prima che, con una normativa del 1994, il Progetto Obiettivo, si definisse un modello di assistenza territoriale, necessario a mettere ordine in quel groviglio di incertezza applicativa che la repentina approvazione della legge aveva lasciato. Questo perché la legge 180 aveva demandato l’attuazione delle nuove norme alle Regioni, che avevano poi legiferato ciascuna a proprio modo, senza una forma di coordinamento condiviso, producendo quindi spesso risultati insufficienti.

Ora, però, la psichiatria si è finalmente concretizzata nella forma voluta dalla Legge 180: una psichiatria fatta non più da muri, ma da persone, contatti e legami sociali, assistenza del malato a 360 gradi. «Oggi il modello su cui si basa l’assistenza psichiatrica è definito bio-psico-sociale» spiega Zanalda. «Questo perché, in primo luogo, la malattia psichiatrica è innanzitutto una malattia a tutti gli effetti, un’affezione biologica. In secondo luogo, perché colpisce la sfera della mente. Infine, perché la cura e il recupero del malato non può prescindere dal ripristino, o dalla conservazione, di tutti quei contatti che il degente ha con il tessuto sociale in cui è nato e vissuto». Per questo il modello di assistenza territoriale viene definito anche “psichiatria di comunità”, proprio perché l’ammalato non viene eradicato dal proprio contesto umano, dalle proprie amicizie e dai propri affetti, ma anzi viene aiutato innanzitutto a fare sì che la sua patologia non comporti tagli netti con tutto ciò che questi contatti rappresentano per lui. Non più una psichiatria che allontana il malato dal luogo in cui vive, dunque ma anzi una psichiatria che va verso il degente, “portando” letteralmente le cure verso quella che lui chiama casa. Attorno al degente lavorano non solo gli psichiatri, ma anche psicologi, assistenti sociali, infermieri. Un lavoro di equipe, di portata amplissima, multiprofessionale e integrato, per far fronte a tutte le necessità del degente oltre quelle più strettamente connesse all’intervento psichiatrico.

Il ricovero ospedaliero, un tempo prassi della metodologia terapeutica, è ormai più soltanto una “extrema ratio”, una soluzione di emergenza, utilizzata per fare fronte alle situazioni di crisi nei casi più gravi, e comunque assolutamente provvisoria, utilizzata solo per brevissimi periodi. «La durata media di un ricovero è di 12 giorni» spiega Zanalda.

La terapia deve infatti svolgersi per quanto possibile nel contesto in cui il degente vive ed è verso questo fine che sono indirizzati tutti gli sforzi del modello cosiddetto territoriale: a fianco del percorso di cura, costruito “ad hoc” dall’equipe del centro di salute mentale attorno al profilo e alle necessità particolari del singolo, c’è il percorso di inserimento lavorativo e sociale; le attività integrative di sport, teatro, cultura, danza, musica; lo sprone continuo affinché il malato possa acquisire una propria sfera sempre più ampia di indipendenza, autonomia e autosufficienza. Sempre senza dover abbandonare le proprie “radici”.

Muri, inferriate, porte chiuse, e l’idea che la patologia mentale sia un fenomeno affrontabile solo con lo sradicamento del malato dalla società, e con la sua emarginazione, sono soltanto più un ricordo del passato.

Luca Pautasso

da L’Occidentale





I manicomi non ci sono più, ma per il “matto” che uccide c’è l’ospedale giudiziario

31 12 2008

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Dal delitto di Cogne alla strade di Erba, solo per citare i casi più eclatanti del recente passato, la cronaca nera pullula di episodi nei quali soggetti affetti da gravi disturbi psichiatrici interpretano il ruolo del carnefice. D’istinto, di fronte a questi episodi, l’uomo della strada si interroga sulla bontà di una legge che lascia libero il malato di mente, anche quello potenzialmente più pericoloso, e non più, come prima del 1978, rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Ma per la psichiatria moderna la reclusione non rappresenta più una risposta, nemmeno nel momento in cui l’ammalato si rende colpevole di reato. E la realtà del “pazzo” che commette un reato si presenta assai più frastagliata di quella che, semplicisticamente, verrebbe da immaginare quando il mostro finisce sbattuto in prima pagina.

Ne abbiamo parlato con Enrico Zanalda, primario del reparto di psichiatria dell’ospedale di Rivoli, vicino a Torino, e responsabile del dipartimento di salute mentale dell’Asl Torino 3. «La vera soluzione – spiega – è da cercare nella responsabilizzazione del malato. In primo luogo, per renderlo consapevole del fatto che ha commesso un reato, e che per questo deve pagare. In secondo luogo, per renderlo ugualmente consapevole del fatto che è malato, cosa di cui il 90% dei malati psichiatrici non è invece assolutamente conscio, e che proprio per questo motivo ha bisogno di affrontare un percorso adeguato di cure».

Oggi, invece, non è così. Nemmeno a 30 anni da quella “rivoluzione” normativa e culturale chiamata legge Basaglia. Per il malato mentale che commette reato, infatti, si aprono inesorabilmente le porte dell’ospedale psichiatrico giudiziario. Ce ne sono cinque in tutta Italia, dei quali il più tristemente celebre è forse quello di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Modena: la prigione delle “mamme-assassine”.

Nonostante l’affermarsi del modello su cui si basa l’assistenza psichiatrica moderna, definito bio-psico-sociale per via delle diverse implicazioni del percorso di cure, per il malato che uccide, o che comunque infrange la legge, l’unica “cura”, se mai così si può definire, resta una cella con le inferriate alle finestre. Sono circa 400 nel nostro Paese i malati rinchiusi in un ospedale psichiatrico giudiziario: circa la metà per essersi macchiata di reati violenti, un 10-12% invece, perché, spinto dalla malattia, ha commesso reati reiterati. «E’ uno scandalo – dice il professor Zanalda – L’ospedale psichiatrico giudiziario serve solo ad allontanare il malato dalla società, non a curarlo. Ma il malato ha diritto ad essere curato, e non semplicemente recluso».

Per superare questo modello, come più volte in passato si è pensato di fare, occorre modificare quanto dispone la Legge. In primis il fatto che, oggi come oggi, l’imputato riconosciuto totalmente privo della capacità di intendere e di volere venga escluso da ogni tipo di responsabilità del fatto commesso. Una scelta che lascia la vittima del reato senza alcuna possibilità di essere risarcita. La soluzione? «Rendere tutti ugualmente, o quasi, responsabili per il reato commesso, ma con le attenuanti per la malattia psichiatrica» spiega Zanalda. «E poi – prosegue – al posto del carcere e dell’isolamento dal mondo, programmare un percorso alternativo di cure adeguate». Cure che possono anche esulare dal mero approccio farmacologico, che da solo non basta quasi mai a superare l’ostacolo della malattia, ma espandersi anche a percorsi riabilitativi e di reinserimento comunitario. Perché il problema, spiega il professor Zanalda, più che nella malattia in se’, risiede invece nella mancata consapevolezza della propria situazione da parte del malato. «Chi è malato, il più delle volte non ammette di esserlo. Chi collabora, invece, è quasi come se non lo fosse, e il percorso riabilitativo consente in questi casi un ritorno ad una situazione di quasi-normalità».

Un’ultima, ma doverosa, considerazione: chi è affetto da un disturbo psichiatrico non commette più reati rispetto a chi è sano. Lo dimostrano studi, dati e percentuali. Ma se questo è vero, lo è anche il fatto, anch’esso ampiamente dimostrato, di come sia assai più facile che proprio in seno ad una famiglia lasciata ad affrontare in solitudine il problema della malattia di un congiunto possa maturare uno di quelli che la terminologia specifica definisce “reati intrafamiliari”. E sono proprio quelli che così sovente la cronaca ci propone in tutta la loro efferata consistenza.

Questo accade anche perché oggi la famiglia si è molto modificata rispetto al passato: scomparsa la famiglia di stampo patriarcale, si è ridotta anche nel numero dei componenti, tanto che, specie nelle grandi città, percentuali sempre più consistenti di nuclei familiari sono composte da due individui, se non addirittura da uno soltanto. «In situazioni come queste occuparsi del malato diventa un “peso” per tutti, e la famiglia tende così ad espellere ed emarginare la fonte del problema: il malato, per l’appunto» dice Zanalda. «E’ in questi casi che, trascinata la condizione all’eccesso, e divenuta questa ormai insostenibile, può verificarsi il fenomeno violento».

Perché chi è malato non deve mai essere lasciato solo, dietro le sbarre di una prigione. Ma nemmeno la famiglia del malato deve essere abbandonata a se stessa, ad affrontare in solitudine difficoltà e ostacoli che senza l’aiuto della psichiatria non riuscirebbe mai a superare.

Luca Pautasso

da L’Occidentale





L’Europa diventa sempre più popolosa (e più vecchia)

30 12 2008

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Come sta la vecchia Europa? Sempre più popolosa, ma sempre più vecchia. E’ questo il ritratto del Vecchio Continente dipinto da Eurostat, l’istituto statistico europeo che nelle scorse settimane ha pubblicato uno studio con le proiezioni di incremento demografico nell’Ue per l’anno a venire. Secondo i calcoli degli statistici a dodici stelle, l’Unione europea toccherà la ragguardevole quota di mezzo miliardo di abitanti già a gennaio del nuovo anno. Nel 2008, infatti, la popolazione nei 27 stati dell’Unione è cresciuta in media dell’1.1 per mille, e dell’1.2 nell’eurozona vale a dire nei paesi che adottano la moneta unica europea.

Ad analizzare i dati stato per stato però, si legge chiaramente come la crescita della popolazione non sia affatto uniforme, e come anzi a paesi che “tirano la carretta” più di altri se ne affianchino altri con un saldo pericolosamente in negativo. I più alti tassi di crescita si registrano in Irlanda, che agguanta il primato assoluto con un +12 per mille; in Francia, seconda con un+4.5 per mille; nel Lussemburgo, con +4.3 a Cipro, +3.9 e nel Regno Unito: i sudditi di Sua Maestà Elisaetta II saranno il 3.6 per mille in più rispetto all’anno che sta per scadere.

C’è però chi non aumenta il proprio saldo demografico, anzi, lo vede drasticamente calare. E’ il caso della Bulgaria (-4.8 per mille), della Lettonia (-3.2) e dell’Ungheria (-3.1). Secondo gli analisti, la causa di un tale decremento è da ricercarsi nella combinazione di due fattori molto importanti: da un lato, l’alto tasso di mortalità dei paesi colpiti dal calo; dall’altro, invece, il sempre più consistente fenomeno di migrazione “interna” verso altri stati dell’Unione europea. Non a caso, sottolineano ancora i dati Eurostat, i paesi che più di altri hanno visto cresere veritginosamente il numero dei propri abitanti sono appunto quelli maggiormente interessati dal flusso migratorio “in entrata”: l’Irlanda, che si accaparra un altro primato con +14.1 immigrati ogni mille abitanti; la Slovenia, salita a +12.6; Cipro, con ben +11.7; e infine la Spagna, forte anche lei di un +10.2.

E’ un bilancio con il segno meno anche per la Germania, che si deve accontentare di un amaro -0.2 per mille, anche questo dovuto principalmente al fatto che l’immigrazione, nel 2008, è stata poco consistente.

E il nostro Paese? Con una crescita del 7.0 per mille, dovuto esclusivamente ad un incremento dei flussi migratori, l’Italia ha già raggiunto sessanta milioni di abitanti. Il Bel Paese però, assieme al Portogallo, registra un tasso di natalità fra i più bassi d’Europa: appena 9.6 nuovi nati ogni mille abitanti, due punti in meno rispetto a un tasso di mortalità che si attesta al 9.8 per mille.
La crescita della popolazione italiana, che avrebbe da sola un saldo negativo dello 0.2 per mille, è però trainata proprio dall’immigrazione, che nel 2008 ha toccato quota 8.1 per mille su una media europea del 3.3. Un dato che deve far riflettere sull’entità del fenomeno migratorio verso l’Italia: soprattutto considerato che, fatte le debite proporzioni sul numero di abitanti, esso risulta di gran lunga superiore, numericamente parlando, a quell’incremento del 14.1 per mille registrato dall’Irlanda quest’anno risultata la “primatista” d’Europa. Ma solo in percentuale.

Ma i dati Eurostat sono anche un preciso monito ai paesi colpiti dal maggior decremento demografico e dal più consistente fenomeno dell’invecchiamento della popolazione a mettere in campo politiche che possano invertire la pericolosa tendenza. E l’Italia non può certo chiamarsi fuori dal novero di questi paesi a bilancio negativo, dal momento che il segno + racimolato quest’anno è merito esclusivamente di un fattore esterno: l’incremento dell’immigrazione.

Così il Governo ci prova mettendo a disposizione degli italiani il “Bonus Famiglia”, ultimo in ordine di tempo tra i provvedimenti governativi in aiuto ai magri bilanci familiari. Si tratta di una somma, come si legge nei programmi dell’esecutivo, variabile da 200 a 1.000 euro a seconda della condizione economica di chi lo richiede, e che non costituisce reddito né ai fini fiscali né previdenziali e nemmeno ai fini del reddito-soglia per beneficiare della social card. Una “boccata d’ossigeno” in più, insomma, che non preclude l’accesso agli altri benefit governativi del pacchetto anti-crisi, ma che mira soprattutto a fornire un supporto economico alle famiglie italiane che si trovano in maggiore difficoltà.

Possono accedere al Bonus i residenti in territorio nazionale che facciano parte di una famiglia qualificata come “a basso reddito”, vale a dire introiti fino a 35mila euro di reddito complessivo familiare annuo. Il reddito-soglia spiega il decreto, varia in funzione del numero di componenti del nucleo familiare, nonché e della loro condizione, come nel caso di un pensionato o un portatore
di handicap, secondo una tabella comparativa speciale.

Per accedere ai benefici del bonus occorre presentare una domanda nella quale il richiedente comunica, attraverso il meccanismo dell’autocertificazione, i dati del coniuge non a carico e il suo codice fiscale; i dati dei figli, gli altri familiari a carico, la relazione di parentela e il rispettivo codice fiscale; infine, il fatto che il reddito complessivo familiare rientri effettivamente nei limiti richiesti dal decreto, e il periodo d’imposta –2007 o 2008 – in cui è stato realizzato il reddito. Per l’esecutivo, si tratta del “massimo sforzo possibile” da parte dello Stato in questo particolare momento di crisi. Nulla di fatto, dunque, per il tradizionale “bonus bebè” che avrebbe dovuto entrare in vigore con l’approvazione della finanziaria 2009-2011, e che sarebbe costare allo Stato qualcosa come 500 milioni di euro l’anno: il provvedimento dell’esecutivo parlava di un bonus di 1.000 euro per ogni nuovo nato a partire dal gennaio prossimo. La misura era stata già presentata lo scorso 18 giugno. Il nuovo decreto anti-crisi approvato dal Governo per sostenere le famiglie in difficoltà ha però convertito il vecchio bonus da 1.000 euro per ciascun nuovo nato in un prestito di 5mila euro destinato alle famiglie numerose, da restituire entro un quinquennio ad un tasso del 4%. Lo stanziamento complessivo da parte dello Stato per finanziare gli aiuti sarà di 25 milioni di euro, e verrà destinato alle famiglie alle prese con l’arrivo di un nuovo figlio nel 2009. Per ottenere il bonus, sarà neessario presentare domanda entro il 31 gennaio.

Si completa così, assieme alla social card approvata in novembre per fare fronte alla crisi e rilanciare i consumi “dal basso”, il quadro delle “stampelle” eonomico-fiscali con il quale il Governo mira a fornire ai soggetti in maggiore difficoltà i mezzi necessari al superamento dell’impasse generale.

Luca Pautasso

da L’Occidentale