Il pangasio è una sorta di grosso pesce gatto che abita i fiumi dell’estremo orente, in particolare il delta del Mekong, in Vietnam. Prolifico, con una grande capacità di adattamento e una voracità degna degli esemplari della sua famiglia, ha fatto di molti fiumi dell’Asia sudorientale il suo regno. Pescato, anzi, pescatissimo dalle popolazioni locali, che si trovano a portata di lenza una consistente riserva di cibo di facile accesso e a basto costo, ha già conquistato anche gli interessi delle multinazionali occidentali delle cibarie, che lo hanno importato con successo in molti menu aziendali europei e d’Oltreoceano.
Da qualche tempo a questa parte, però, i filetti di pangasio sono entrati prepotentemente anche nel menù offerto da ristoranti, tavole calde, ma soprattutto mense aziendali, comunali e scolastiche di casa nostra. Perché il pangasio si pesca in gran quantità, dunque costa pochissimo, e la sua polpa non emana il caratteristico odore di pesce, per molti fastidioso. Anzi, non emana proprio nessun odore, né tantomeno nessun sapore. Ma le sue bizzarrie organolettiche non finiscono qui.
I valori nutrizionali della sua polpa ne fanno un vero e proprio “casus” gastronomico. Il pangasio, infatti, contiene un’alta percentuale di acidi grassi saturi, circa il 45%, mentre la quantità di Omega 3, gli acidi grassi “buoni”, essenziali al buono stato dell’organismo, sono appena il 5%. Il contenuto dei grassi in genere è comunque minimo: soltanto 2 grammi ogni 100.
In Italia, paese dove ha cominciato a far capolino solo di recente, ha dovuto superare esami di laboratorio rigorosissimi prima di poter ottenere l’autorizzazione alla vendita. Il delta del Mekong, luogo da cui proviene la maggior parte del pangasio in commercio, è infatti uno dei bacini di acqua dolce più inquinati al mondo. Tutto sommato però, le analisi hanno appurato che la polpa del pangasio è relativamente sana: la concentrazione di mercurio, metalli pesanti e pesticidi organoclorurati, nonché dei famigerati PCB, rilevata nei campioni esaminati, è bassissima, e rende pertanto questo pesce mangiabile più di due volte a settimana, ovvero la dose normalmente consigliata per un corretto consumo dei prodotti ittici. Anche la consistenza della polpa, unita alla totale assenza di lische, fanno del pangasio un pesce “amico” anche dei palati più schizzinosi.
Non è tanto una questione di salubrità in senso stretto, dunque, né di gusto. Anzi, chi sceglie di consumare pangasio in molti casi lo fa proprio perché, inodore e insapore com’è, non fa storcere il naso come invece altri tipi di pesce. I prolemi veri, semmai, si pongono quando il pangasio viene presentato e venduto come “altro”. Come pese gatto, ad esempio, come sogliola, o come platessa. Le carni bianchissime, pulite e prive di lische, e magari anche una confezione modificata “ad hoc”, potrebbero trarre in inganno sulle prime anche la massaia più smaliziata. Inutile dire che, in tal caso, si tratta di una vera e propria truffa, peresguibile penalmente a termini di legge. Una “contraffazione ittica” però molto lucrosa per il commercio, dato che il costo del pangasio, rispetto a quello dei pesci che dovrebbe “imitare”, è irrisorio.
Altro prolema, il confezionamento: il pangasio arriva in Italia congelato, in confezioni sigillate e recanti tutte le indicazioni necessarie alla corretta identificazione del contenuto. Ma non sempre le cose vanno come dovrebbero, e spesso il prodotto malconfezionato o non conservato alla temperatura consona si presenta in condizioni pesantemente alterate, inadatte alla vendita e al consumo.
Molto probabilmente, però, il fenomeno-pangasio in Italia è destinato a spegnersi con la stessa rapidità con cui è esploso. Perché i vantaggi del suo consumo, che stanno tutti eslcusivamente nella sua straordinaria economicità, non sono certo quelli in grado di suscitare appeal sul consumatore medio italiano, che magari è disposto anche ad allargare un po’ di più i cordoni della borsa, per quanto vuota possa essere in questo periodo di crisi, pur di non rinunciare alla buona cucina. E’ un po’ lo stesso principio secondo cui, nemmeno con la crisi e il costo galoppante dei prodotti a base di cereali, nessun italiano ripiegherà mai sull’economico hamburger del fast food rinunciando alla cara, in tutti i sensi, pastasciutta.
di Luca Pautasso
da InformaConsumatori
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