Sulla Birmania è calato il silenzio

23 01 2009

birmania1

“Oh, Myanmar, where are thou?”. Non occorre di certo scomodare i fratelli Cohen citando il titolo di una delle loro pellicole più celebri per descrivere l’assurda posizione dell’opinione pubblica mondiale rispetto alla crisi birmana. Sparita dai giornali, dai servizi in televisione, dai blog e dai siti internet che soltanto pochi mesi fa sciorinavano una dopo l’altra le news su ciò che stava accadendo nella Birmania sconvolta dalla repressione. Oggi tutto tace, senza che però nulla sia cambiato. Il regime militare filocomunista, finanziato e appoggiato dal potente «vicino di casa» cinese non ha visto minimamente compromessa la sua leadership. L’opposizione democratica rappresentata nel mondo dalla sua bandiera Aung San Suu Kyi, l’eroina della resistenza libera, è stata di nuovo messa a tacere. La voce di protesta dei monaci buddisti che avevano pacificamente condotto nelle vie e nelle piazze la popolazione birmana a gridare il proprio «no» all’oppressione è stata soffocata nel sangue dalle armi della giunta militare. E dal silenzio assordante del resto del mondo.

Si prospetta dunque un altro triste capitolo per il paese asiatico che da quasi cinquant’anni vive sotto il tallone di una dittatura tra le più sanguinose del nostro secolo e di quello appena trascorso. Indipendente dal 1948, la Birmania conobbe una brevissima parentesi democratica, caratterizzata però da un’endemica fragilità del governo e delle istituzioni nazionali che portò, nel 1962, alla presa del potere da parte di una giunta militare comunista, forte della voce delle armi e del compiacente appoggio della Repubblica Popolare Cinese. Il nuovo governo dei generali si impose sin da subito con la violenza, pianificando e mettendo poi in atto una campagna di sistematica repressione ed eliminazione, anche fisica, degli oppositori politici. Il pugno di ferro dei militari spinse la popolazione birmana a chiedere una riforma democratica dello Stato, a cavallo tra il 1987 e il 1988, e l’anno successivo il governo fu costretto a garantire libere elezioni.

Fu allora che si impose agli occhi del mondo la figura di Aung San Suu Kyi, la coraggiosa figlia dell’eroe dell’indipendenza Bogyoke Aung San, che prese la guida della coalizione democratica in opposizione ai militari e riportò una schiacciante vittoria alle urne. L’esito delle elezioni, però, non ebbe alcun effetto pratico sul cambiamento: anzi, prima ancora che il verdetto dell’elettorato birmano potesse esprimersi, Aung San Suu Kyi fu tratta in arresto e condannata ai domiciliari dalla giunta militare, che impose un ritorno al vecchio regime attraverso una nuova, violentissima campagna di repressione. Rilasciata nel 2002 per intercessione delle Nazioni Unite, la leader dei democratici birmani fu arrestata nuovamente l’anno successivo, a seguito della accesa campagna di protesta scatenata in tutto il paese dagli oppositori al regime militare. Per mantenere il controllo del paese la giunta non ha mai esitato a ricorrere a qualsiasi espediente utile al proprio scopo. Tra i più sanguinosi, le torture e le uccisioni in carcere degli oppositori politici e l’utilizzo delle mine antiuomo come elemento di deterrenza e repressione.

Lo scorso anno, l’ultimo atto, con quella che il mondo ricorda come «la rivoluzione zafferano», dal colore delle vesti dei monaci buddisti che guidarono la protesta nonviolenta. L’ennesima soffocata nel sangue, con migliaia di vittime tra i civili e una campagna di strangolamento dell’informazione non irregimentata che sfociò in una vera e propria caccia ai giornalisti.

Oggi che lo sguardo dell’opinione pubblica si è allontanato dal martoriato paese dell’Asia sudorientale, le violenze son si sono interrotte.  differenza di un anno e mezzo fa, però, il regime può operare indisturbato, senza più l’ingombrante presenza di telecamere e cronisti «scomodi» da tutto il mondo. Nulla è cambiato: inutili le proteste, inutili le vittime, inutile una mobilitazione «a mezzo servizio» della comunità internazionale, già dimentica di quello che fino a pochi mesi or sono era il fatto di cronaca che apriva le pagine di ogni quotidiano al mondo e che oggi, invece, surclassato da nuovi drammi che probabilmente, tra un anno, faranno la stessa fine, è nuovamente ripiombato in un comodo dimenticatoio.

Luca Pautasso

da Ragionpolitica





La guerra a Gaza raccontata da un ragazzo israeliano

23 01 2009

gaza

per gentile concessione di Giovanni Vagnone di Trofarello e Celle

La guerra di Gaza e la situazione di Israele e palestina sono dei temi che chiunque, oggi, è abituato a veder tornare sulle prime pagine dei giornali, tra le prime notizie in televisione e al centro dell’ideologia di chi ama schierarsi «contro» qualcuno o qualcosa. E’ un ritorno ciclico e drammatico, con i suoi codazzi di manifestazioni (è di pochi giorni fa quella tenutasi qui a Torino di fronte al Municipio, in cui si inneggiava ad Hamas in coro, ed era solo l’ultima di una lunga serie in tutta la nostra Europa), con i suoi contraccolpi di opinione, con l’intensa attività e produzione di giornalisti di ogni livello e tipo.

Ma a volte da tutte queste descrizioni fredde, sia che si ammantino di imparzialità oggettiva, sia che si fregino di uno spirito partigiano violento, non traspare la cosa più importante :tutte queste notizie non hanno un’anima. Non hanno quel messaggio in più che ha la testimonianza diretta di un amico. Certo, ci sono le donne urlanti che compaiono un istante, per dire una frase, nei servizi dei tg; ma quelle trasmettono forse emozioni, non sentimenti. La differenza dei due tipi di impatto è come quella tra un acquazzone estivo di mezz’ora ed un’alluvione invernale di una settimana.

Una conversazione fatta con una persona che si conosce bene, quando la tempesta della cronaca si placa, illumina le riflessioni già impostate e dà loro un senso maggiore. Per questo ci limiteremo a riportare senza alcuna modifica il testo di un’intervista a Yoni Argaman, un ragazzo che potrebbe essere uno qualsiasi dei vostri conoscenti. E se riusciremo ad entrare in empatia con le sue parole, avremo non solo il suo punto di vista, ma anche la consapevolezza in più dell’unico spirito di esseri umani che ci accomuna. Yoni potrebbe essere un vostro vecchio amico. Yoni, potrebbe essere uno qualsiasi di voi.

Meno di un anno fa, Israele ha celebrato il suo sessantesimo anniversario. Quando gli chiesero di questo avvenimento storico, Haim Guri, uno dei più grandi poeti israeliani, disse: «Non è l’indipendenza che commemoriamo. Celebriamo sessant’anni di lotta per raggiungerla».

Nato in Israele, ho passato gran parte della mia vita in un Paese che vive all’ombra di una minaccia costante. Ho trent’anni. Ho fatto il servizio militare e ho studiato legge. Mi hanno infranto il cuore e ne ho infranti molti. Gioco a basket il venerdì sera e mi piace guardare la tv e stare con i miei amici. Non odio nessuno. Noi israeliani non odiamo nessuno. Le immagini che arrivano da Gaza sono dolorose per occhi israeliani così come per quelli italiani. Quando vedi le foto delle vittime di Gaza, c’è la possibilità che ti chieda: «Come fa un paese moderno a commettere tali atrocità?»

Ritengo sia necessario presentare un diverso punto di vista. Quello che, secondo me, non è ben presentato dai media europei. Israele ha lanciato un’offensiva contro Hamas, non contro i palestinesi. Hamas è una delle organizzazioni terroristiche più violente e spietate del mondo, il cui statuto afferma chiaramente che Hamas è stata creata per distruggere lo Stato di Israele. Diciotto mesi fa, Hamas ha colpito duramente a Gaza: i terroristi hanno gettato – vivi – i nemici di Al Fatah da edifici di quindici piani , sparato al figlio di uno di loro e fatto irruzione negli ospedali per finire i nemici feriti che giacevano inermi nei loro letti. Il regolamento di Hamas a Gaza è caratterizzato da anarchia, uccisioni pubbliche extragiudiziali e guerriglia tra bande. Durante la guerra di Gaza, il New York Times ha riferito che militanti di Hamas in borghese hanno ucciso ex-detenuti della prigione centrale di Gaza, accusandoli di aver collaborato col nemico. Questi «collaboratori» sono stati giustiziati in pubblico nonostante i gruppi per i diritti umani palestinesi continuassero a ripetere che «la maggior parte di queste persone era completamente innocente».

Per otto anni i palestinesi di gaza hanno bombardato le nostre città meridionali. Dopo il ritiro di Israele da Gaza, i bombardamenti sono aumentati. La stessa cosa era accaduta diversi anni prima, dopo il ritiro unilaterale di Israele dal Libano. Nel 2008, un anno che ha visto sei mesi di cessate il fuoco, 1.571 missili e bombe e 1.531 colpi di mortaio sono stati sparati su Israele dalla Striscia di Gaza. Il mio amico Gil, che adesso vive in una zona che qualcuno ritiene, a ragione, contesa, ha passato le ultime tre settimane a casa dei genitori perché il suo appartamento non ha un rifugio di sicurezza. Ti faccio una domanda: Se la tua città fosse bombardata da missili per otto anni, ti aspetteresti un intervento del tuo governo?

C’è chi dice che il numero di vittime è un indicatore perstabilire chi ha ragione o torto in questo conflitto. Io dico che è naif. Un migliore indicatore sarebbe quello del Mens Rea, la premeditazione. Dovrebbe essere chiarito che, diversamente da Hamas, Israele sta facendo uno sforzo consapevole per non colpire innocenti spettatori, mentre Hamas sta facendo un consapevole sforzo per fare proprio quello! Hamas sta bombardando Israele senza distinguere o selezionare i suoi obiettivi. Da quando è cominciata la guerra centinaia di asili, scuole, università, templi e altre istituzioni scolastiche e religiose in Israele hanno subito colpi diretti. L’unica differenza è che le autorità israeliane hanno installato sirene per avvisare i civili di ripararsi qualche secondo prima che i missili colpiscano la terra (più di un milione di israeliani dorme nei rifugi ogni notte). Senza questi mezzi, il numero di vittime israeliane sarebbe stato decisamente più alto. Ti avrebbe dato l’impressione che Israele avesse meno torto? Potresti dire che, diversamente da Israele, i palestinesi non hanno dove nascondersi. E’ vero. Ma per la maggior parte perché i capi palestinesi, nel corso degli anni, hanno deciso di spendere i miliardi di dollari ricevuti dalle nazioni arabe per procurarsi armi e «implementare» i propri conti svizzeri invece di costruire infrastrutture, promuovere l’educazione e sì, costruire rifugi. Senza sentirsi virtuosi – come in ogni guerra, si fanno errori disastrosi (come uccidere tuoi soldati in incidenti di fuoco incrociato) e abbiamo molto da rimproverarci per la morte di persone innocenti – credo che Hamas dovrebbe essere ritenuta responsabile per l’esito spaventoso di questa guerra.

La striscia di Gaza è probabilmente una delle zone più densamente popolate al mondo. Hamas non mette un’uniforme quando va in guerra. I terroristi usano intenzionalmente cittadini di Gaza come scudi umani, si vestono in borghese, si nascondono e sparano dalle case, dagli ospedali e dai cortili delle scuole. Quando spari da case di civili, moschee e scuole, quando non indossi nemmeno un’uniforme e ti mischi con la popolazione – hai molta della colpa. E quando riempi di trappole esplosive interi quartieri, sotterri dinamite sotto la città e usi centinaia di case private come deposito di armi… Per favore, non essere sorpreso se il numero degli attacchi dell’esercito israeliano si decuplica.

A volte penso se siamo davvero destinati a rimanere per sempre i “ragazzi cattivi”. Nel 2008, il 68% delle decisioni dell’Assemblea Generale UN riguardanti la violazione di diritti umani avevano come obiettivo Israele. L’Afghanistan era citato nel 4% delle decisioni, insieme ad Azerbaijan, Georgia, Stati Uniti, e pochi altri. Russia, Sudan, Cina e Arabia Saudita, giusto per fare qualche nome, non erano citate affatto. Nel 2007 trentadue Paesi sono stati menzionati per violazione di diritti umani, anche se alcuni solo a malapena. Ancora una volta Israele era in cima alla lista con 121 provvedimenti contro di esso. Il Sudan (dove più di 200.000 persone sono state uccise e 2.5 milioni hanno perso la casa con la violenza) era secondo con 61 provvedimenti, il Myanmar terzo con 41. Gli Stati Uniti erano quarti, con 39 provvedimenti, insieme alla Repubblica Democratica del Congo (dove muoiono 45.000 persone al mese. Ne sono morte circa 5.5 milioni dal 1998, la metà delle quali erano bambini sotto i cinque anni). Ora, di nuovo, non sto insinuando che tutte le azioni di Israele siano giuste, ma suvvia… Questi dati ti fanno pensare a come e perché il mondo si stia scegliendo le tragedie a cui fa fronte.

Guarda, non c’è bianco e nero qui. Vivendo in Israele (e sulla striscia di Gaza) finisci per capire che c’è un sacco di grigio. Nessuno è nato con l’odio. Però quando le nazioni vicine educano i loro bambini all’odio, alla paura e alla vendetta (per esempio, i campi estivi terroristici e «Farfur», il Michy-Mouse della TV di Hamas che predica odio e vendetta ai bambini di Gaza), allora c’è un problema serio.

Dopo più di cento anni di spargimento di sangue, abbiamo bisogno di capi coraggiosi e pragmatici che guardino al futuro invece che al passato. Hamas deve ritirarsi. Lo deve fare perché non è nessuna di queste cose. Durante tutta la guerra i capi di Hamas sono stati nei loro comodi uffici a Damasco o nei loro bunker ben protetti a Gaza ed erano pronti ad offrire così tante vite palestinesi (eccetto la propria) semplicemente per mantenere alto l’orgoglio. Durante la guerra, più di 1.300 abitanti di Gaza hanno perso la vita (di questi, circa 600 erano terroristi armati), la maggior parte degli arsenali di armi di Hamas è stata distrutta nei primi quattro minuti di guerra, centinaia di tunnel sono stati demoliti e Gaza è stata danneggiata moltissimo. Dal lato israeliano, 9 soldati hanno perso la vita (4 dei quali sono morti in scontri a fuoco incrociato). Questo non ha trattenuto Hamas dal dichiarare con orgoglio la propria vittoria, affermando di aver ucciso più di 80 soldati israeliani, di aver abbattuto elicotteri e aver rapito soldati. I palestinesi hanno bisogno di capi che non vivano in un loro mondo fantastico. Hanno bisogno di capi che non mentano di fronte a loro e non insistano nel portare avanti una crociata infinita per vendetta. Hanno bisogno di capi coraggiosi che promuovano pace e tolleranza e non odio e riprovazione. La mia unica speranza è che questi capi arrivino mentre siamo in vita, perché tutto quel che voglio fare davvero è giocare a basket il venerdì sera.

di Giovanni Vagnone di Trofarello e Celle

da Ragionpolitica