In tempi di crisi c’è anche chi compra cibo scaduto su internet

19 01 2009

Alzi la mano chi, aprendo lo sportello del frigo o della dispensa e pescandovi all’interno quasi a casaccio una confezione di yoghurt, di biscotti o di crackers li ha poi consumati ugualmente, con un’alzata di spalle, nonostante sulla carta fosse scritto a chiare lettere che la data di scadenza era passata già da un po’. “Magari è ancora buono, perché buttarlo via così?”. E, magari, buono lo era ancora sul serio.

Ora però, con la crisi figlia dei subprime, c’è anche chi di questa pratica da massaia parca è riuscito a fare addirittura un business. E che business. E’ il caso della inglese Approved Food, in italiano “Cibo Approvato”, che dalla sede ubicata nella città industriale di Sheffield, un passato scandito dal ritmo delle acciaierie ed un presente scandito dalla generale difficoltà di far quadrare i bilanci, affascina tutte le casalinghe d’Oltremanica con le sue incredibili offerte di cibo “low cost” a portata di “clic”. Tutto cibo scaduto, of course, recuperato per un pugno di pence a libbra dagli scaffali di supermarket che altrimenti l’avrebbero gettato inesorabilmente nella pattumiera, e messo infine in bella mostra sulle vetrine virtuali del loro sito web.

Tranquilli, gente, è tutto legale: quella di vendere il cibo scaduto è una pratica diffusa già da quasi un decennio in Inghilterra, dove proprio nei dintorni dei supermercati e centri commerciali non è affatto inusuale trovare mercatini improvvisati in cui spopola proprio questo tipo di mercanzia. Qualcuno ha provato ad introdurre questa pratica estrema di non buttare vie nulla, ma proprio nulla, addirittura qui da noi, in Italia, la patria per antonomasia della buona cucina, il Paese dove guai a toccare ciò che si mette in tavola, ché altrimenti scoppia la rivoluzione. Del resto, cibo scaduto non significa per forza cibo velenoso o malsano. I “capoccia” del marketing made in Approved Food, assieme a parecchi nutrizionisti ed esperi inglesi, assicurano infatti che la data di scadenza indica semplicemente un limite oltre il quale la cibaria in questione potrebbe perdere qualche punticino in fatto di qualità, non di salubrità. Insomma il cibo scaduto, purché sia scaduto da pochi giorni e soprattutto sia controllato, non è più pericoloso: è soltanto un tantino meno buono.

Oggi grazie all’impressionante tam tam internettiano, ma soprattutto grazie alla spintarella impressa a questo tipo di consumi “border line” da parte della crisi, il commercio di cibi scaduti sta attraversando un vero e proprio boom. E ne sanno qualcosa proprio quelli di Approved Food, i cui bilanci non hanno mai visto cifre così allegre come in questi giorni. Da quando ha parlato di loro persino un servizio del Financial Time, poi, i prodotti messi in vendita online nonostante il “trapasso” della data di scadenza sono stati letteralmente presi d’assalto da decine di migliaia di acquirenti. Così tanti che, ad intervalli regolari, i curatori del sito web di Approved Food devono interdire gli accessi da parte degli utenti per aggiornare la lista dei prodotti in vendita e per esaudire tutte le prenotazioni.

Anche se soltanto fino a ieri schiere di economisti “left-oriented” e sociologi non perdevano occasione per rimproverarci la pessima abitudine da Primo Mondo di consumare troppo e buttare via ancora di più, sembrano ormai ricordi persi in un passato remoto quelli in cui l’Occidente crapulone e prodigo era la patria degli sprechi, specie sul fronte del cibo. La crisi ha costretto tutti a fare i conti con le proprie abitudini quotidiane, anche quelle alimentari. E anche quelle di un paese che nelle classifiche delle nazioni più ricche e sviluppate del globo non resta certamente nascosto sul fondo della lista.

La sterlina vede pesantemente ridimensionato il suo potere d’acquisto, i portafogli degli inglesi si sgonfiano sempre di più, al pari di quelli dei cugini europei al di là del Canale, e così anche l’approccio ai consumi da parte dei sudditi di Sua Maestà si fa decisamente più accorto. Forse addirittura troppo. Perché gli esperti nutrizionisti di casa nostra, ad esempio, considerano la corsa al cibo scaduto un indice inconfutabile del fatto che “mala tempora currunt”, cioè che siamo davvero in difficoltà. Ma di fronte alle difficoltà spesso non resta che fare buon viso a cattivo gioco: così, se il ricorso al mercato del pasto scaduto è una tendenza che sembra ormai inevitabile, si deve tentare almeno di correre ai ripari per preservare la salute del consumatore. Magari riportando sulla confezione dei prodotti alimentari non una sola, ma addirittura due date di scadenza. La prima, quella classica, che riporti il limite massimo entro il quale è ancora possibile consumare un prodotto che conservi ancora intatte tutte le proprietà organolettiche. L’altra che indichi il giorno oltre cui mangiare il contenuto dell’incarto diventa molto simile al cimentarsi in una roulette russa dove a chi perde tocca inevitabilmente la lavanda gastrica. O una gita non tanto di piacere al più vicino centro antiveleni.

Luca Pautasso

da L’Occidentale





Dio salvi la regina. E il suo servizio da te di porcellana

9 01 2009

wedgwood

Dio salvi la regina. E il suo servizio da tè di porcellana. Perché la crisi economica “made in suprime” non sembra voler proprio guardare in faccia niente e nessuno: né alla storia, né al prestigio, né al blasone. E’ stato proprio così che in questi ultimi tempi, nel vorace tritacarne della crisi che manda in tilt i bilanci di molte aziende e fa chiudere i battenti a tutte le altre, è finita anche la Wedgwood, la casa artigiana da sempre considerata dai sudditi di Sua Maestà Britannica la “regina” delle porcellane. Adesso, con le vacche magre che ruminano voracemente non solo i dollari, ma anche le sterline, quasi 300 anni di storia rischiano di andarsene in fumo. Pardon, in bricioli. Proprio come una finissima chicchera che cada dal suo ripiano.

Anche per la storica Wedgwood, infatti, è scattato il regime di amministrazione controllata, dopo cinque anni di tiro alla cinghia per far stare a galla il marchio nonostante la chiusura dei bilanci fosse sempre, irrimediabilmente in rosso. Il gruppo anglo-irlandese Waterford-Wedgwood, proprietario della casa artigiana, ha tirato avanti finché ha potuto: ma da quest’anno i suoi creditori hanno chiuso i rubinetti delle bombole ad ossigeno. Prima fra tutte la Bank of America, sua creditrice principale. L’istituto di credito statunitense, fino a poco tempo fa considerato una corazzata inaffondabile nei sette mari della finanza internazionale, ed ora a rischio di colata a picco come un altro inaffondabile, il Titanic, ha risposto con un secco no ai “cugini” d’Oltreoceano che imploravano un’estensione dei prestiti. “Niente soldi, siamo in crisi”. Ora che il valore delle azioni Wedgwood è sceso alla ridicola cifra di 0,001 euro ciascuna, e nessuno pare intenzionato ad immettere nuova linfa vitale nelle casse esangui della ditta, oltre alla nobile aura del brand sono a rischio quasi tremila posti di lavoro manufatturiero d’eccellenza.

Ma non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui, nelle terre d’Albione, per le dame della upper class sfoggiare un servizio di porcellana marchiato Wedgwood era un po’ come per i loro figli e mariti andarsene in giro con al fianco della loro divisa di ufficiale di marina una splendida sciabola Wilkinson: un segno di distinzione sociale, di prestigio, di estremo buon gusto e di indubbio benessere.

La casa delle porcellane d’autore era stata fondata nel 1759 da Josiah Wedgwood, un impareggiabile artista nel suo campo. Tanto bravo che nel giro di pochissimi anni l’azienda artigiana da lui fondata si era trasformata in un colosso, conquistando con il suo prestigio le preferenze di regnanti e nobili di mezza Europa, e anche un po’ più in là. E’ entrata nella storia, ad esempio, la storica commissione ordinata dalla zarina Caterina di Russia, che volle per se’ dalla Wedgwood un servizio di ben 952 pezzi. Merito di tanto successo furono all’inizio soprattutto le simpatie di Carlotta, principessa consorte di re Giorgio III, il sovrano che perse 13 colonie del nord America nella guerra d’indipendenza. Carlotta si innamorò perdutamente di quelle porcellane, tanto da conferire a Josiah la qualifica di Ceramista di Sua Maestà, e da elargire un titolo anche al servizio che Wedgwood aveva fabbricato per lei: da quel giorno, “il Servizio della Regina”. E se è vero che la pubblicità è l’anima del commercio, essere sponsorizzato dal monarca più potente della terra significava all’epoca aver saldamente raccomandato l’anima del proprio commercio a tutti i santi del paradiso.

Inaccettabile, dunque, per qualsiasi figlio d’Inghilterra che si rispetti, lasciare scomparire nel nulla un marchio che da sempre ha rappresentato nel mondo tutto lo stile ed il lusso Made in Britain. Così gli amministratori della Wedgwood di oggi, Angus Martin e David Carson si stanno dando da fare molto seriamente nella battuta di caccia grossa ad un nuovo acquirente. Anche straniero, purché danaroso: come avvenuto per la Rolls Royce e la Rover, le blasonate case automobilistiche “cadute” l’una in mano tedesca e l’altra cinese ma pur sempre vive e britannicissime nel cuore di ogni inglese. Perché l’orgoglio patriottico sarà pur sempre l’orgoglio patriottico, ma in casa Wedgwood sono anche disposti a chiudere un occhio sul pedigree del futuro acquirente se questo potrà consentire una serena e prosperosa sopravvivenza alla casa di porcellane che ha affascinato così tanti monarchi devoti a San Giorgio.

Pare che le offerte d’acquisto non siano mancate, e soprattutto che siano di portata tale da poter garantire sia agli attuali proprietari di concludere un buon affare, che al marchio di assicurarsi una lunga vita anche in futuro. La più concreta, fino ad ora, è quella pervenuta nella sede di Dublino da parte di una private equity americana, che ha messo sul piatto una posta di 280 milioni di dollari sonanti per diventare azionista di maggioranza del gruppo. Quasi un milione per ogni anno di storia Wedgwood, che potrebbe far entrare i nuovi acquirenti nel libro dei primati: nemmeno l’opulentissima zarina Caterina di Russia aveva mai speso tanto per un servizio da tè.

Luca Pautasso

da L’Occidentale