I trenini che non passeranno più

7 02 2009

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Ci sono treni che passano una sola volta nella vita. Persi quelli, si perde con essi l’opportunità della svolta definitiva. Ci sono invece treni, anzi, trenini, che forse non passeranno mai più. Lasciando lo stesso amaro in bocca di una grande occasione mancata. E’ così che la crisi si è portata via in questi giorni il mito pluricentenario dello storico marchio Marklin, la casa del giocattolo tedesca che, assieme ai nostri Lima e Rivarossa, ha saputo scrivere pagine importanti nella storia del modellismo ispirato all’epopea delle strade ferrate. I trenini elettrici sono stati un sogno ad occhi aperti per intere generazioni di fanciulli che, nemmeno una volta cresciuti, hanno saputo dimenticare le locomotive luccicanti, i vagoni di ogni epoca e nazione riprodotti così fedelmente da lasciare senza fiato, e poi ancora i plastici e i diorami con i quali realizzare stazioni, viadotti, ponti, gallerie quasi più vere del vero.

Ma la crisi passa sopra a tutto: alla storia, ai blasono e al romanticismo. Quando i soldi non ci sono, si chiude bottega, specialmente quando ci sono in ballo già debiti a sei zeri da saldare. Debiti che la Marklin aveva cominciato ad accumulare con gli istituti di credito già da anni, da quando, cioè, la concorrenza sempre più spietata dei videogiochi e delle consolle iper-futuribili ha via via relegato il mondo dei trenini elettrici e del modellismo ferroviario nel novero dei pezzi da museo. Sarebbe stato necessario un enorme slancio di cuore per salvare la Marklin. Ma cosa c’è al mondo di meno romantico di una banca che batte cassa? Una banca che batte cassa perché anche lei è già nei guai di suo, e non ha tempo di badare ai malanni degli altri. Fossero anche i malanni della ditta che trenta o quarant’anni fa, molto probabilmente, ha fatto andare in sollucchero gli stessi bambini che oggi, in doppiopetto di grisaglia, sono diventati quei banchieri così inflessibili. Così gli amministratori dell’azienda abituati ad esaudire i sogni dei piccini hanno dovuto fare i conti con la realtà imposta dai grandi, chiedendo l’amministrazione controllata.

Il forfait della Marklin arriva proprio nell’anno in cui il brand festeggia i 150 anni di attività: i primi trenini elettrici prodotti dalla casa tedesca nella sede storica di Gőppingen, nella Germania meridionale, risalgono infatti al 1859. Allora erano due le fabbriche dove si dava vita a quei gioiellini a metà tra il giocattolo da bambino senza età e la chicca da collezionista. La prima in Germania, l’altra in Ungheria. Nei suoi cataloghi di ieri e di oggi non solo trenini, ma ogni specie di giocattoli. E’ però nel riprodurre convogli, scambi e stazioni in miniatura che Marklin acquisisce fama e prestigio in tutto il mondo. Il modello che l’ha resa famosa è il «coccodrillo» delle ferrovie svizzere, un curioso locomotore elettrico tutto verde, così chiamato perché il profilo ricorda proprio la silouette del temibile rettile anfibio. La produzione attuale della casa comprende però, oltre ai modelli delle ferrovie tedesche, anche riproduzioni di treni francesi, olandesi, svizzeri, austriaci, spagnoli, americani, svedesi, norvegesi, danesi, ungheresi, lussemburghesi e, ovviamente, italiani.

Peccato che proprio in un anno in cui solitamente si dovrebe pensare a quali edizioni speciali o tirature limitate sfornare per far contenta la clientela, ci sia ben poco da celebrare. Ora tocca ai nuovi amministratori tentare almeno un salvataggio in extremis della fabbrica e dei suoi 650 dipendenti che ancora lavorano, dopo la recente chiusura di una filiale tedesca costata il posto a 400 lavoratori. Gli strumenti per riuscire nell’ardua impresa ci sono, o almeno così ritiene la dirigenza, la quale ha annunciato di volersi avvalere di tutti gli strumenti messi a disposizione dalla legislazione tedesca in fatto di aziende sull’orlo del baratro. Perché se pure i bilanci sono magri, con appena 128 milioni di euro di fatturato nell’ultimo anno, c’è ancora un nome da spendere, una professionalità maturata durante un secolo e mezzo di successi e leadership mondiale, ed un marchio ancora sinonimo di qualità, amore per i dettagli, affidabilità e utilizzo di materiali d’eccellenze. E i tanti amatori dei trenini elettrici Marklin sparsi in giro per il mondo si augurano ora che per i beniamini della loro infanzia questo non debba essere l’ultimo viaggio prima della fine.

Luca Pautasso

da Ragionpolitica





Nasce Cehoz, l’abbigliamento etico biologico made in Italy

2 02 2009

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Quello che non vedete, lo sentite sulla vostra pelle.

L’impegno di Cehoz™ Cehoz™ non è solo abbigliamento, moda, lifestyle. Cehoz™ nasce infatti con il preciso obiettivo di creare un prodotto unico tanto nella qualità dei prodotti quanto nella manifattura quanto nei valori etici che promuove.

Un paradigma che comincia a dettare legge a partire dal materiale con cui i prodotti a marchio Cehoz™ vengono confezionati. Il cotone utilizzato da Cehoz™ per i suoi prodotti, infatti, proviene esclusivamente dalla Turchia, coltivato in piantagioni dove si pratica agricoltura biologica. Questo garantisce non solo il rispetto della terra ma anche dei lavoratori, tutelati con l’utilizzo di sostanze atossiche ed introdotti in una formazione sui meccanismi di coltivazione biologica quali corsi sulla preparazione del concime organico e sulla lotta ai parassiti.

La filatura e la tessitura dei tessuti impiegati da Cehoz™ avvengono invece interamente in Italia in stabilimenti certificati biologici: dietro ogni capo Cehoz™ che indossate, non c’è dunque solo un prodotto di altissima qualità ma anche un capo d’abbigliamento che ha superato elevatissimi standard d’eccellenza nel rispetto dell’ambiente e della manodopera. Anche la tintura ed il finissaggio dei tessuti Cehoz™ sono interamente realizzata in Italia in stabilimenti certificati biologici. Perché per Cehoz™ ogni dettaglio conta, dai campi di cotone al vostro guardaroba alla moda. Così i coloranti e gli ausiliari tessili utilizzati sono eco-compatibili, garantiti privi di formaldeide ed altri prodotti di sintesi inquinanti o potenzialmente dannosi per l’uomo.

Un’attenzione particolare alla assoluta salubrità del prodotto che contempla anche l’assoluta sicurezza per la salute degli operatori impegnati in tutte le varie fasi della lavorazione della materia prima. Per questo, anche il tessuto, dalla filatura alla tintoria è prodotto in filiera tessile biologica certificata ICEA. Il Made in Italy, che rappresenta il Dna del marchio, lascia il segno anche nella confezione dei capi Cehoz™, per la quale si impiegano esclusivamente ditte italiane specializzate nel settore, alle quali viene richiesto di rispettare tutte le norme di legge. La stampa delle grafiche in serigrafia Cehoz™ avviene con prodotti certificati e garantiti, privi di sostanze di sintesi inquinati o dannose per l’uomo. Il packaging, infine, è realizzato in carta riciclata mentre i cartellini di tutti i prodotti Cehoz™ sono realizzati su carta certificata eco-compatibile prodotta tramite forestazione sostenibile. Le etichette dei capi Cehoz™ non sono interamente sintetiche ma impiegano anche materiali naturali come la canapa. Inoltre Cehoz™ cura direttamente il disegno e la realizzazione dei modelli di tutti i suoi capi, ulteriore segno distintivo dei prodotti, non conformi con la produzione di massa.

Quello che facciamo non è motivato da una moda passeggera o da un effimero capriccio estetico. Lavoriamo infatti con la profonda convinzione che anche attraverso ciò che si indossa tutti i giorni si possano difendere e soprattutto diffondere princìpi come quelli della solidarietà, della difesa dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile.

A questo scopo, Cehoz™ ha deciso di devolvere una parte consistente dei propri introiti derivati dalla vendita dei suoi prodotti a NutriAid, un’organizzazione umanitaria impegnata ogni giorno nella tutela dei diritti dell’infanzia nei Paesi in via di sviluppo. In particolare, i fondi raccolti verranno devoluti alla campagna “Nets4Children”, finalizzata all’acquisto di zanzariere per prevenire la malaria.

Chi indossa un capo Cehoz™ si vede, e si sente a pelle. Perché il nostro marchio si scrive Cehoz™, ma si legge qualità, stile, impegno sociale

http://www.cehoz.com

Luca Pautasso

da Cehoz





L’oro, “bene rifugio” in tempi di crisi

21 01 2009

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Anche nel pieno imperversare della crisi economica c’è chi continua a fare affari d’oro. Anzi, affari con l’oro. Il principe dei metalli, da sempre simbolo di ricchezza, regalità, solidità economica, lusso e fasto non sembra infatti perdere minimamente il suo abbagliante splendore. Nemmeno in tempi in cui un sistema economico mondiale sempre più claudicante dipinge tutto di nero. Tutt’altro. Lo dimostrano le quotazioni assunte dall’oro proprio a partire dallo scoppio della bolla finanziaria dei subprime: quotazioni, e stavolta è proprio il caso di dirlo, davvero «auree» a tutti gli effetti. In concomitanza con il crack di Lehman Brothers il valore assunto dal metallo del re Creso era schizzato verso l’alto di oltre il 30%, passando dall’usuale valutazione dei circa 700 dollari l’oncia, già tutt’altro che disprezzabile, a quella quasi stratosferica di 1000 e più biglietti verdi. Il tutto nel giro di un mese appena. Poi l’entusiasmo, frutto di un crescente timore su tutti gli altri fronti di investimento usuali, era andato un po’ scemando, ma non troppo: l’oro si era assestato attorno ai 900 dollari l’oncia, cifra dalla quale, salvo isolati balzi in su e in giù, ma pur sempre leggerissimi, non si è ancora allontanato.

Che l’oro sia annoverato tra i cosiddetti “beni rifugio” per eccellenza, vale a dire quei prodotti o quelle materie prime considerate al sicuro dagli sbalzi d’umore del mercato e quindi appunto rifugio tranquillo per chi vuole investire senza correre rischi, è sicuramente cosa risaputa anche da parte di chi mastica poco o nulla di economia e finanza. Anzi, sono proprio questi ultimi che spesso condizionano le fortune dell’oro, non fidandosi di altri strumenti finanziari più aleatori e quindi più «pericolosi». Ma in tempi in cui la crisi sembra proprio non voler risparmiare niente e nessuno, sono scomparsi via via dal mercato anche tutti gli altri beni rifugio che normalmente facevano «comunella» con l’oro ogniqualvolta l’economia era in difficoltà. Ad esempio il petrolio, che ha cominciato a perdere la sua aura di investimento «sicuro» già dallo scoppio della seconda guerra del Golfo. O il mattone, altro bene rifugio per eccellenza, in particolare nel Belpaese: quando però la crisi parte proprio dai mutui, ovvero il canale principale con cui alla parte più larga degli investitori del settore è consentito acquisire immobili, ecco che anche il mercato dei quattro muri finisce con l’essere lasciato da parte. Infine, il franco svizzero: uno dei pochi conii considerati ancora esenti dalle bizze di borse & affini. Stavolta, però, è andata male anche agli elvetici e alla loro inaffondabile (?) moneta. Del resto è comprensibile: un paese la cui solidità economica è quasi totalmente basata sul sistema bancario risente inevitabilmente di quelle crisi che vanno a mettere in discussione in primis proprio le banche.

Così l’oro è rimasto il solo ad occhieggiare, dall’alto delle sue rassicuranti quotazioni, a tutti quegli investitori impauriti e timorosi del domani, piccoli o grandi che siani, che vedono oggi nel giallo luccicante del metallo un approdo sicuro nel bel mezzo di un mare in tempesta. Ne sa qualcosa chi, sui mercati odierni, lavora trattando proprio le cosiddette «commodities», ovvero le materie prime standard, come petrolio, gas naturale, legname, cereali e così via: prima delle crisi l’oro occupava in questo settore il 40% delle domande, contendendosi la percentuale con quei prodotti che, a seconda degli umori del mercato, parevano agli investitori più interessanti e redditizi. Ora invece la sua quota è diventata più che maggioritaria, quasi da monopolista: siamo arrivati infatti al 75%. E la scalata non accenna a terminare, dato che la sfiducia degli investitori mondiali sulla ripresa dei mercati è ancora ben lungi dall’essere scongiurata, visto che nemmeno i consistenti provvedimenti adottati da governi e banche centrali di mezzo mondo sembrano poter assicurare che il peggio sia davvero passato. Così, dopo la corsa all’oro nel mitico Klondike di fine ‘800, oggi ci troviamo ad assistere alla corsa dell’oro, al galoppo lanciato sui mercati e nelle borse. Le borse di chi, ovviamente, può permettersi l’onere non indifferente della spesa.

Luca Pautasso

da Ragionpolitica

vedi anche: “Un approdo sicuro in mezzo alla tempesta

da FFwebmagazine