Il sistema cinese dei trapianti

26 02 2009

cina-esecuzioni

La Cina e trapianti d’organi: quando la «fabbrica della morte» sostenta la «fabbrica della vita». Dopo anni di silenzio, omertà e secretazioni imposte dall’alto, adesso è ufficiale: in Cina il sistema dei trapianti si fonda quasi completamente sull’inesauribile filone di «materia prima» fornito dalle esecuzioni capitali.

Sono tra le 2mila e le 10mila ogni anno le condanne a morte fatte eseguire dai tribunali penali cinesi, spesso senza che al condannato sia mai stata formulata nessuna accusa, ancor più spesso a seguito di processi-farsa su base meramente inquisitoria per «reati» che sovente si limitano all’aver espresso in qualche misura una forma di opposizione al regime. E dalle esecuzioni, celebrate per lo più per fucilazione alla nuca o per decapitazione, nulla va sprecato: non la pallottola, il cui costo, stimato dalle autorità in 5 centesimi di dollaro cadauna, viene addebitato alla famiglia del condannato; ma nemmeno il corpo, che finisce per alimentare in tutto o in parte, a seconda delle esigenze, la macchina cinese dei trapianti d’organo.

La «corsa» cinese ai trapianti ha avuto inizio per espresso desiderio delle autorità sanitarie nazionali verso la metà degli anni ’80, decennio in cui, in brevissimo tempo, il paese riuscì a raggiungere un numero così ragguardevole di interventi da risultare secondo soltanto agli Stati Uniti. Una posizione da cui la Cina non si è poi più allontanata, riuscendo così ad ottenere sui tavoli operatori quello stesso risultato che una ventina d’anni prima il Grande Timoniere Mao aveva auspicato per l’industria mineraria e metallurgica: raggiungere e magari anche superare i livelli di produttività di una grande potenza occidentale, che in quel caso era la Gran Bretagna.

Già da allora, dagli anni ’80, gli attivisti per i diritti umani avevano cominciato a denunciare la pratica dell’espianto degli organi ai condannati a morte, ma senza che la notizia riuscisse mai a calcare la ribalta dell’opinione pubblica internazionale. La prima ammissione ufficiale da parte delle autorità di Pechino risale solo al 2008, quindi 20 anni più tardi la sollevazione del «casus».

Il 14 novembre dello scorso anno, infatti, in occasione del Summit nazionale sul trapianto degli organi tenutosi a Ghuazou, il viceministro cinese della sanità Huang Jiefu, ha ammesso che «la maggior parte degli organi disponibili per i trapianti sono prelevati dai condannati uccisi», specificando però subito dopo in tutta fretta che «le pubbliche autorità richiedono il consenso informato dei prigionieri o delle loro famiglie alla donazione degli organi», particolare negato con veemenza dalle Ong internazionali, e concludendo poi con l’annuncio dell’istituzione di un registro statale per le donazioni e i trapianti. Quello cui però il viceministro Jiefu si era guardato bene dall’accennare erano i numeri di questo fenomeno: sempre secondo le fonti riportate dagli attivisti pro diritti umani, facilmente accessibili su internet, la quantità degli organi espiantati e poi trapiantati la cui provenienza sarebbe da collegarsi alle esecuzioni capitali rasenterebbero infatti il 90% del totale.

Secondo le autorità la pratica dell’utilizzo dilagante degli organi dei condannati a morte senza autorizzazione e consenso informato espresso dal condannato o dai suoi congiunti sarebbe esclusivo appannaggio di medici senza scrupoli, operanti in clandestinità, la cui azione andrebbe ad alimentare un lucrosissimo traffico di organi internazionale, che vedrebbe quindi la stragrande maggioranza degli organi espiantati varcare i confini cinesi per raggiungere danarosi pazienti esteri largamente munifici.

Per gli attivisti, però, che non negano affatto l’esistenza di questi traffici transnazionali di «materiale umano», quella raccontata dal Governo sarebbe solo una parte della verità: una verità che, se raccontata nella sua interezza, vedrebbe coinvolte direttamente tanto le autorità carcerarie quanto i vertici medici vicini al sistema correzionale cinese, viste le tutt’altro che infrequenti visite mediche cui verrebbero sottoposti i condannati prima della loro esecuzione, al fine di valutarne lo stato di salute e quindi l’idoneità all’espianto degli organi.

Anche sul fronte dell’annunciata variazione di rotta all’insegna della trasparenza, poi, il recente passato non ha visto un effettivo mutamento sella situazione: al di fuori dei 600 chirurghi presenti ai lavori del summit di Ghuazuou, infatti, sono stati pochissimi i medici cinesi che hanno scelto di aderire espressamente al codice etico e comportamentale imposto dalle nuove direttive del viceministro Huang Jiefu. Senza che, peraltro, i vertici della sanità cinese abbiano avuto nulla da ridire a riguardo.

Luca Pautasso

da Ragionpolitica


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